Il compito più difficile per qualsiasi fotografo è instaurare un rapporto con i soggetti – le persone – e la fotografia mi ha insegnato a farlo. L’intimità che ricerco assiduamente nelle mie immagini può essere ottenuta solo in un’atmosfera di fiducia e compressione. Ho imparato ad ascoltare con ogni fibra del mio essere cogliendo non solo quando viene detto, ma anche i segnalo espressi.
Ogni coltura ha i propri gesti peculiari che indica rispetto, aggressività, ironia, paura, gentilezza, sospetto. Un fotografo deve saperli riconoscere. Che stia fotografando un matrimonio beduino, un villaggio pachistano o un agricoltore inglese, mi ricordo sempre di essere un’ospite nella realtà altrui, la straniera che deve rispettare gli usi di un’altra cultura.
Il mio scopo è mettere i miei soggetti a loro agio affinché possa mostrarli come esseri umani; per quanto mi è possibile, cerco di sparire e di trovare i modi per non intimidire. Non porto mai una borsa per le attrezzature né indosso la giacca da fotografo. Cerco di mimetizzarmi più che posso. Ad esempio, spesso mi abbasso, accovacciando o inginocchiandomi con la fotocamera. In effetti ho scoperto che in genere i soggetti sono meno intimiditi quando mi trovo alla loro altezza o un po’ più in basso. Evito di usare interpreti e cerco di comunicare in prima persona in ogni modo possibile. Sorrido e rido molto. -A.G.
ANNIE GRIFFITHS ha lavorato in oltre cento Paesi per decine di progetti sia per le riviste sia per i libri della National Geographic Society, di cui è stata uno dei primi fotografi di sesso femminile. Tra i suoi articoli si annoverano quelli su Lawrence d’Arabia, Baja California, Nuova Zelanda e Gerusalemme. Nel 2008, ha pubblicato un memoriale fotografico, A Camera, Two Kids and a Camel, mentre il suo ultimo libro, Simply Beautiful Photographs, è uscito nel 2010.
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